Gli internati, tra i prigionieri italiani della seconda guerra mondiale, sono quelli che, deportati dopo l’8 settembre 1943, si rifiutarono di collaborare prima con le formazioni germaniche della Wehrmacht e delle SS, poi, dopo il risorto Stato fascista, con la Repubblica sociale italiana. Il loro numero oscilla tra 600 – 700 mila.
Considerati traditori, perché usciti dall’alleanza con i tedeschi, subirono il trattamento riservato agli appartenenti agli ultimi gradini della gerarchia razziale nazista, appena sopra a quello dei russi, che seguivano gli ebrei.
Hitler, poiché non poteva ammettere che vi fossero dei militari prigionieri di uno stato alleato (la Germania riconosceva solo la Repubblica Sociale Italiana), dal 20 settembre 1943 ordinò di cambiare il loro status di Prigionieri di guerra in Internati Militari, condizione che avrebbe dovuto costituire un miglioramento della loro situazione, quasi fossero militari in attesa di adesione al nazifascismo, che per la stragrande maggioranza non arrivò mai.
In realtà il cambiamento di status li sottrasse alla tutela della Croce Rossa Internazionale, privandoli di qualsiasi forma di assistenza (cibo, medicinali), che avrebbe dovuto essere garantita dalla RSI, ma che non funzionò quasi per niente, rendendoli, di fatto, schiavi nelle mani di Hitler per il lavoro coatto a favore dello sforzo bellico tedesco, in dispregio della Convenzione internazionale di Ginevra del 1929.
Dopo il rifiuto di continuare a combattere, che contribuì non poco ad accorciare i tempi della guerra, quanto meno in Italia, soldati e sottufficiali vennero avviati al lavoro, mentre, nei primi mesi, l’obbligo non fu imposto ai circa 30.000 ufficiali, dai quali si cercò di ottenere, grazie al ricatto della fame e dei disagi ambientali, l’adesione volontaria al lavoro.
Questo il modulo di adesione rifiutato dalla stragrande maggioranza dei militari italiani:
” Aderisco all’idea repubblicana dell’Italia repubblicana fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituendo nuovo Esercito Italiano del Duce, senza riserve, anche sotto il Comando Supremo tedesco contro il comune nemico dell’Italia repubblicana fascista e del Grande Reich Germanico”.
Questa scelta volontaria della prigionia è la caratteristica peculiare della resistenza attuata dagli IMI. Una Resistenza senz’armi che si affianca a quella combattuta in armi dai partigiani sul suolo della Patria. È il primo libero referendum dopo vent’anni di dittatura. Un progressivo e sempre più convinto rifiuto del nazi-fascismo, attuato nella consapevolezza che scegliere la prigionia voleva dire non tornare a casa e rischiare anche la morte. 50.000 pagheranno con la vita questa scelta. In seguito agli accordi tra Mussolini e Hitler del 20 luglio 1944, gli IMI subirono un’ulteriore beffa.
Si impose loro la trasformazione da militari a lavoratori civili. Anche in questo caso si chiese l’adesione e, conseguentemente all’ennesimo rifiuto, gli IMI vennero nuovamente costretti al cambiamento di status, che si cercò di imporre anche agli ufficiali. A causa della resistenza anche di costoro, il 31 gennaio 1945 l’SS- Obergruppenfürer Gottlob Berger emanò le disposizioni obbligatorie per gli ufficiali, ma diversi riuscirono ad eluderle.
495.000, di cui circa 8.000 ufficiali, furono gli IMI “civilizzati”. Mussolini propose il cambiamento, in seguito alle richieste tedesche di ulteriore manodopera, sperando di ottenere maggiore consenso interno dal miglioramento delle condizioni degli IMI. Gli internati, diventando lavoratori civili, avrebbero goduto degli stessi benefici di coloro che erano andati a cercare lavoro in Germania e sarebbero potuti uscire dal Lager nel, sia pure esiguo, tempo libero, ma Mussolini sottolineò di non farli rientrare in Italia, temendo che potessero passare dalla parte dei partigiani.
In realtà la cosiddetta “civilizzazione” servì al regime come scoop propagandistico per affermare che non vi erano più militari internati in Germania, mentre le condizioni degli IMI migliorarono di poco – nel cibo ma non nel vestiario – e soltanto da agosto a dicembre, perché da allora la situazione della Germania precipitò. In diversi casi si arrivò effettivamente all’apertura dei cancelli dei Lager, ma agli IMI venne tolta anche la dignità di militari e i «liberi lavoratori civili» passarono sotto il controllo della Gestapo, mentre l’orario di lavoro venne aumentato a 72 ore settimanali, perché dal 25 luglio 1944 Hitler dichiarò la «guerra totale», chiedendo un ulteriore sforzo alla nazione. Doveva essere rispettato il coprifuoco (alle 20 o in alcuni casi alle 22) e non si poteva uscire dal circondario. Inoltre, la forzata «civilizzazione» pesò sul futuro destino degli IMI al momento della liberazione da parte degli alleati, perché in un primo tempo vennero considerati collaborazionisti e, beffa atroce, vennero poi esclusi dai risarcimenti della Germania perché considerati prigionieri di guerra. Il calvario degli Internati militari non finì, per tutti, con la liberazione dai Lager, perché i liberatori ancora lì li trattennero, a causa dell’incertezza della loro qualifica. (Fonte: ANEI – Associazione Nazionale Ex Internati nei Lager nazisti)